Appendice

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Appendice letteraria - N. 10


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Appendice "letteraria"

N. 10

Era accaduto, non molti anni erano trascorsi e tutti in città lo ricordavano bene, che un ballerino di passaggio, non più giovane e desideroso di trovare un luogo nel quale fermarsi ed aprir scuola, avesse scelto chissà come e perché la nostra cittadina. Si chiamava Matteo Bolsi ed era primo ballerino per le parti, un ruolo che aveva ricoperto per più di vent'anni, sempre con buon esito davanti al pubblico di tutte le città della penisola. Il primo ballerino per le parti doveva possedere, e Bolsi la padroneggiava con maestria, una potente espressività mimica, ma non gli si richiedeva di eccellere nella tecnica pura, nei passi e nelle figurazioni propri ai virtuosi. Bolsi si trovava in città con una compagnia d'Opera e Ballo che si esibiva al Teatro Comunale e forse spinto dal successo, forse affranto dall'infelicità della condanna all'infinito girotondo, si decise a fare il passo. Il demone dell'azzardo lo aveva avvolto nel suo fumoso mantello. Fece stampare dieci manifesti enormi, cento locandine e mille foglietti, impegnandosi tutta la paga della stagione. Fece affiggere i manifesti ai cantoni predisposti, portò in giro per la città le locandine e distribuì personalmente i foglietti all'uscita del teatro. Il messaggio dichiarava:



Il Professore di Ballo Matteo Bolsi

invita la cittadinanza all'inaugurazione della sua Scuola di Danza

Lunedì 5 Ottobre alle ore 17

presso le sale della Società Filodrammatica


Di giorno, chiunque lo incontrasse per strada, gli esprimeva i propri complimenti per la lodevole iniziativa. La sera, nel chiuso dei salotti, si rideva a lungo fantasticando dell'impietosa trappola che Ghedini gli avrebbe preparato. Si rideva forte ricordando la triste fine dei ballerini che avevano preceduto Bolsi nell'incosciente impresa. Ghedini non rideva. Ritiratosi nel suo studiolo, in mano il fogliettino con l'annuncio, che un suo allievo con eccesso di servilismo gli aveva consegnato ancor prima che Bolsi li distribuisse, avendolo sottratto al tipografo, si costrinse a meditare. Era triste, e non poco, perché conosceva da molti anni e ammirava Matteo Bolsi. Apprezzava in lui l'artigiano del mestiere; sapeva che era sposato e manteneva col suo lavoro una numerosa famiglia. Lo ammirava da quando, cosa rarissima nella sua vita, aveva pianto ad una sua perfetta e struggente interpretazione di Enrico IV. Era riuscito Bolsi a velargli l'arte e svelargli l'anima del personaggio. Era triste, ma non dubitò neanche un attimo. Carta e penna alla mano, Ghedini delineò il piano d'attacco. La sera stessa, dopo la lezione, si appartò con due dei suoi più bravi e fidati allievi e spiegò loro ogni cosa. Giunse il giorno dell'inaugurazione. Bolsi aveva a sue spese fatto lucidare a nuovo la sala che la Società Filodrammatica utilizzava per le prove, noleggiata per l'occasione. Tutto intorno le sedioline in legno scuro si alternavano con poltroncine di velluto cremisi, le prime per i giovani, le seconde per le mamme, le zie, le tutrici che accompagnavano pupille e pupilli. In fondo, al centro della sala il pianoforte; sulla destra un grande tavolo tondo apparecchiato con una tovaglia rosa dai bordi cremisi in tinta con le poltroncine e ricolmo di coppette di caramelle, biscotti e pasticcini; caraffe di acqua limonata e bicchierini dal vetro viola e il disegno di grappoli d'uva in risalto. Al pasticciere di via Grande aveva lasciato in pegno l'orologio d'oro e il tabarro di velluto pesante, chiedendo di poter pagare con il denaro versato dai primi allievi. Il volto illuminato dalla felicità, Bolsi accoglieva le signore profondendosi in inchini e baciamani, strizzatine d'occhio ai monelli, sorrisi ammalianti alle ragazze, quasi incredulo nel vedere in qual numero aveva risposto al suo invito. Il pensiero che la sua vita stava per cambiare, che finalmente avrebbe potuto avere una casa, viverci con la famiglia senza dover rifare il baule ogni mese, lo sorprese mentre ancora una signora con le sue due ragazze porgeva la mano declinando le generalità. Il sorriso strampalato, gli angoli della bocca a cercare le orecchie, gli occhi intenti a forzare le orbite trovarono riflesso nello sguardo imbarazzato della signora e spaventato delle ragazze. Si riprese subito e continuò a spargere fascino ad arte. Riempitasi la sala, sedie e poltrone tutte impegnate, il ballerino decise che era giunto il momento di dare avvio al trionfale inizio. Se solo avesse immaginato quante delle signore presenti erano lì esclusivamente per godersi lo spettacolo che di certo Ghedini aveva orchestrato! Bolsi si pose al centro della sala, accanto al pianoforte e iniziò un infervorato ragionamento sulla storia, il valore, la necessità della danza. In poco più di un minuto riuscì a citare tutti i testi fondamentali, dalla Bibbia al Blasis, che spandevano nobiltà sulla danza; ornò con qualche motto celebre la dissertazione e concluse, ringraziando tutti i presenti con un profondo inchino. L'auditorio salutò con un sentito applauso lo scampato pericolo da una logorrea insopportabile. E qui, con tempismo micidiale, scattò il primo affondo. Non appena l'eco del battito delle mani cessò, un giovane si fece avanti dal fondo della sala, salutò con un perfetto inchino e si presentò come un giovane studente universitario e porse il saluto di benvenuto suo e dei suoi colleghi di facoltà. Proprio mentre Bolsi chinava il capo in senso di benevola accettazione, il giovane compare di Ghedini assestò la prima mazzata, pronunciando stentoreamente la domanda: "Ci chiedevamo, se Lei avesse intenzione di inserire nel suo insegnamento anche il nuovo valzer Boston". Colpito, con il capo ancora chino, Bolsi non riuscì a sollevarlo subito e rimase ancora qualche istante con gli occhi fissi al pavimento. In una frazione infinitamente piccola di tempo riuscì a pensare a cosa potesse essere il valzer Boston, a perché in quella lontanissima città del Nord America qualcuno avesse avuto la brillante idea di inventare un valzer nuovo, a quale risposta poteva azzardare per levarsi dall'impiccio. Sollevò il capo, guardò il giovane e ammiccò un sorriso, annuendo leggermente con la testa, in modo che il tutto e il nulla saldassero il conto con quella terribile domanda. Lo studente sorrise a sua volta, come ad intendere, fece un inchino e un passo indietro, rientrando nel cerchio degli astanti. Sorrise ed ebbe la certezza che il piano di Ghedini era diabolicamente perfetto. Iniziò la lezione dimostrativa. Bolsi presentò il suo metodo di insegnamento, lasciò intravedere grandi competenze pedagogiche e sconfinate conoscenze tecniche. Mostrò posizioni ed esercizi relativi, passi semplici e complessi. E qui arrivò il secondo affondo, più cattivo del primo e vibrato sulla corda personale. Un altro giovane fece un passo avanti, staccandosi dal cerchio, salutò con cortesia e, con finta innocenza, chiese se fosse normale che un ballerino per le parti, non troppo abituato all'esecuzione di passi del balletto, ma piuttosto espertissimo, sottolineò con la voce il giovane, nell'arte della mimica, potesse aprir scuola di ballo. Bolsi sentì il gelo scivolare giù per la schiena e una buona dose gli finì anche negli occhi, perché il suo sguardo divenne di ghiaccio. Capì tutto, e si sentì una pedina nel gioco degli scacchi, percependo che una mente perfida stava manovrando da lontano quell'incontro. Riaggiustò i lineamenti del volto, scorse intorno lo sguardo a cercare sostegno. Trovò le facce impenetrabili dei giovani, i sorrisi maliziosi di qualche mamma, gli occhi bassi impietositi di qualche tutrice. Reagì, come gli capitava di fare in scena davanti a disastri inattesi, e con uno scarto di umore, come attingendo ad una riserva profonda di energia quasi con un urlo gettò all'auditorio la domanda che aveva riservato a coronamento del suo impegno illustrativo: "Ci sono tra di voi giovinette e giovani che desiderino provare a danzare? Tranquilli, perché vi illustrerò io ogni cosa". Sospinte dalle mamme, qui e là delle ragazze accennarono di voler accettare, mentre i ragazzi, più decisi si presentarono in gruppo al centro della sala, in testa gli allievi di Ghedini, pronti ad assestare il colpo definitivo. Formato il carré per danzare la quadriglia, Bolsi iniziò a dare le istruzioni per l'esecuzione della Quadriglia Francese. Aveva creduto che dare dimostrazione nell'insegnamento di una delle danze più semplici e conosciute fosse il modo più chiaro di palesare le sue doti di insegnante. Ghedini lo aveva previsto, era la mossa più naturale per chi non sospettasse un tranello, e su quella mossa aveva preparato lo scacco matto. Non appena fu chiaro che le figure chiamate e descritte erano quelle della vecchia Quadriglia, i giovani rimasero come inchiodati al loro posto e con uno sguardo altero e sprezzante sbuffarono di noia, fino ad attirare l'attenzione del ballerino che rivolse nei loro confronti uno sguardo interrogativo. Era il segnale. Il giovane in prima posizione sbottò: "Ma professore, è da anni che la Quadriglia Francese non è più di moda", il secondo rincarò: "Spero non voglia prendere il nostro tempo per tali banalità", e nuovamente il primo:"E i nostri denari", il terzo aggiunse "Sarebbe stato meglio se ci avesse mostrato il Boston", e ancora il primo, serrando il ritmo "A Parigi , ormai non si balla altro". A questo punto Bolsi era così confuso che non riusciva più a comprendere da dove giungessero le voci e si voltava, a scatti, ora da una parte ora dall'altra, sorridendo come solo gli innocenti confusi riescono. La vocina acuta di una ragazza, trascinata ingenuamente dall'entusiasmo, diede senza volerlo il tocco finale: "Professore, è vero che a Parigi la Quadriglia Francese non si balla più in quadrato?" Era la fine, i giovani sicari mandati da Ghedini finirono la loro vittima. In coro, ad alta voce, esclamarono: "E' abbastanza, noi andiamo!" e salutando, condussero con educazione le loro dame dalle rispettive accompagnatrici. Nel frattempo i compari del vecchio maestro presenti in sala iniziarono ad alzarsi in maniera rumorosa, accentuando ad arte il fastidioso crepitio delle sedie smosse sul pavimento. In breve la confusione regnò sovrana. Senza che Bolsi avesse dato conclusione alla presentazione, questa aveva avuto fine. Qualcuno gli si avvicinava salutando garbatamente, altri andavano via all'inglese. Dopo che anche il pianista gli strinse calorosamente la mano e chiese il pattuito, rimase solo. Il rinfresco, sulla tovaglia bordata di cremisi, era intatto. Sedie e poltrone intorno, sparse in disordine lo circondavano come i suoi pensieri desolati. Si lasciò andare, si sedette al tavolo, si riempì un bicchiere di limonata, diede fondo ad un cestino di biscotti al burro. Pensò al suo baule di legno e cuoio verde, pensò alla casetta dove aveva lasciato la sua Mariuccia, vide le facce allegre dei suoi quattro diavoletti. Pensò che nella strada degli artisti, fatta di sudore e polvere, non esistevano le scorciatoie. Vide la coppetta ricolma di wafer alla crema, quantificò il costo, la corteggiò un attimo con gli occhi languidi e infine la portò a sé, facendola propria con voluttà. In quel mentre gli allievi correvano dal vecchio maestro, annunziandogli la vittoria. Con gentilezza, Ghedini li accolse, ascoltò il racconto, accettò i complimenti e infine li licenziò tutti, tranne uno, il più fidato. A costui consegnò una busta contenente il denaro necessario a pagare, in assoluto segreto, tutte le spese sostenute da Bolsi nel suo avventato tentativo. Poi si chiuse in camera, non prese cibo e lasciò che la notte passasse sulla sua coscienza inquieta. Si addormentò pensando: non è colpa mia, è la vita.


Ultimo aggiornamento: ottobre 2003