Appendice

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Appendice letteraria - N. 11


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Appendice "letteraria"

N. 11

La testa inclinata, appoggiata sul palmo di una mano, il corpo quasi disteso sul tavolino, proteso in avanti, sorretto solo dal gomito del braccio destro. Così se ne stava l'anziano marchese Zoboli, in serena attesa di godersi l'usuale spettacolo della lettura del giornale da parte del colonnello Tinsa. Il sorriso gli tendeva appena le labbra, gli occhi socchiusi. Così rimase il marchese nell'udire la notizia dell'arrivo del nuovo maestro. Non si scompose, ma se qualcuno l'avesse guardato bene negli occhi avrebbe notato un luccichio brillarvi dentro. Cosa di fatto impossibile, perchè non vi era alcuno a degnare di uno sguardo il vecchio Zoboli. Non accadeva questo perché era una persona dallo sguardo sfuggente, al contrario, egli amava guardare dritto negli occhi i suoi interlocutori, ma questi sapevano che quello sguardo aperto e diretto era una trappola e cascarci dentro significava subire il racconto delle sventure che negli ultimi venti anni avevano colpito lui e la sua famiglia. Zoboli cercava sempre, con gli occhi, l'attenzione di chi gli stava intorno, ma chi gli stava intorno quello sguardo lo evitava perché il solo, fuggevole attimo dell'incontro con un paio d'occhi che lo fissavano era per lui il segnale d'attacco. S'illuminava nel suo cervello la lampada della fratellanza verso colui che aveva voluto condividere il suo sguardo e che, di certo, non si sarebbe tirato indietro dal condividere la penosa litania delle sue sciagure. Effettivamente, la sorte non era stata benevola nei suoi confronti e il continuo accanirsi, anno dopo anno, disgrazia dopo disgrazia aveva generato dapprima presso i suoi conoscenti, ma ben presto in tutta la città, la certezza che in quell'uomo e nella sua casa aveva trovato dimora la sfortuna. La sequenza logica, da tutti condivisa, era quindi stata: vuoi che la sfortuna che quest'uomo si porta appresso non possa, a stargli troppo vicino, salterellare sulle sue parole e cascarci addosso? Utilizzare quel terribile fiume di sciagure narrate per riversare su di noi la iattura che chissà chi e perché aveva acquartierato in casa sua? Non che lo si considerasse uno iettatore; solo un po' appestato di quella triste perché insanabile malattia che è la scalogna. Sin da quando era ragazzo, studente in collegio, la malasorte gli si era appiccicata addosso. I professori lo interrogavano solo quando era impreparato, riuscendo con incredibile precisione a cogliere il giorno esatto anche quando si trattava di uno su cento. L'unica volta in vita sua in cui provò a fumare del tabacco, nascosto dietro la vecchia enorme carrozza abbandonata nella rimessa, fu scoperto da uno zio che andò a raccontare subito ai suoi genitori che il figlio da anni s'intossicava di nascosto col tabacco, e per due mesi gli fu tolto dal babbo il saluto, la paghetta settimanale, i romanzi d'avventura e le uscite domenicali. La mattina in cui stava recandosi a discutere la tesi di laurea inciampò e cadde rotolando giù per i gradini del grande scalone che conduceva all'Aula Magna, e fu costretto dalle fratture multiple riportate a rimandare di un anno l'agognato evento. Individuata dai genitori la sua futura sposa, ebbe a scoprire, al momento della presentazione che era sì, come da tutti i familiari lodato, una delle ragazze più ricche della città, ma anche, come da tutti taciuto, una delle più brutte, o meglio, come volle forzarsi a pensare quando la guardò con attenzione in volto, una delle meno belle. Il giorno del matrimonio, giunto il momento solenne del taglio della torta, fu fatto avvisare dal pasticciere che la crema, chissà per quale diabolica macchinazione, era tutta acidita e agli ospiti fu servita una poco dignitosa torta sbrisolona. Guai da poco, quelli della sua gioventù se paragonati ai ben più grossi che l'assillarono in età matura. Ben deciso a moltiplicare il già cospicuo capitale portato in dote dalla moglie, lo affidò in buona parte ad una società ferroviaria che costruiva strade ferrate in Turchia. La società fallì dodici giorno dopo l'avvenuto acquisto delle azioni. Quando un amico, disperato perché incapace di pagare i creditori giunti ormai alla minaccia di rendere pubbliche le sue vergogne, gli tese la mano per aiuto concreto, non si tirò indietro, ma gli prestò l'intera somma necessaria a saldare tutti i debiti; cosa che l'amico fece puntualmente, salvando la famiglia dal disonore, ma l'indomani si tolse la vita con una pallottola nella tempia, lasciando il marchese senza alcuna speranza di rivedere il suo denaro. Una notte una potente scossa di terremoto fece sussultare l'intera regione; la mattina si scoprì che in nessun luogo vi erano stati danni, solo il suo palazzo mostrava una paurosa crepa, una cicatrice che tagliava dal tetto al primo piano l'ala destra della facciata. Se in città si riversava una pioggia torrenziale, il canale sul quale era stato costruito il suo palazzo si gonfiava d'acqua e straripava allagando dapprima le cantine, quindi il cortile, trasformando in stagno paludoso il giardino all'italiana tanto curato ed amato dalla sua signora. Che il marchese Zoboli avesse la sfortuna dalla sua fu definitivamente chiaro a tutti quando, morta la prima moglie per una malattia rarissima e sconosciuta, si risposò con una giovane e bella ragazza, seppur borghese di nascita, alla quale, in segno di gratitudine, aveva promesso di organizzare il più gran bel ballo che la città avesse mai visto: di più, voleva superare la memoria dei viventi e far dono alla moglie del ballo più grandioso, prezioso, stupendo che la città avesse testimoniato nell'ultimo secolo. Erano, da quel momento, da quando lui in ginocchio le aveva promesso che nulla avrebbe potuto ergersi ad ostacolo del suo dono e del suo desiderio, trascorsi già dieci anni e il ballo ancora non era stato realizzato. Il primo anno, appena una settimana prima del carnevale, era defunto il vescovo della città e il lutto aveva chiuso saloni e salotti. Il secondo anno i giovani erano tutti in divisa a sparare agli austriaci. L'anno successivo vi fu una gran carestia e il buon senso volle che non si offendesse la sensibilità della cittadinanza con sfarzo fuori tempo e misura. L'anno dopo una tragedia familiare abbrunì il portone del palazzo. L'anno ancora dopo la città fu avvolta per tutto l'anno in un manto di neve che impedì qualsiasi attività sociale. Quindi morì il Papa, poi il Re, poi si scatenarono le lotte tra i partiti sorti nella nuova Italia e organizzare una festa alla quale partecipassero tutti insieme i signori della destra e della sinistra, liberali, cattolici e democratici era impensabile. Zoboli, dieci anni dopo, ci credeva ancora, anche se non aveva avuto più il coraggio di parlarne con la moglie e in tutta la casa ogni accenno alla parola ballo era con attenzione evitato. Fu così che nell'ascoltare l'annuncio letto da Tinsa, uno scintillio balenò nei suoi occhi. La notizia che un nuovo maestro di ballo stesse per giungere in città gli illuminò il pensiero e riaccese la speranza mai sopita di poter finalmente dar vita al grandioso evento promesso alla sua signora. "Sì, pensò, è questa l'occasione giusta. Mostreremo a questo pretenzioso giovanotto come si organizza un ballo di società". E aggiunse al suo pensiero: il più gran bel ballo che si sia mai visto.


Ultimo aggiornamento: ottobre 2003