N. 13
L'interrogativo era esploso con forza incontrollata. Un atto di liberazione compiuto dal più profondo strato del sentire, quello che addensa e custodisce stati d'animo e pensieri che siamo soliti accantonare nel continuo fluire del dover vivere quotidiano. Quella domanda diradava nel pensiero la sensazione di ottundimento che si era generata dall'affastellarsi di paure e dubbi, dal fondersi di ansie e decisioni obbligate, dall'incrociarsi di insicurezze e debolezze antiche. Voleva mettere ordine, era il segnale dell'inizio di un ragionamento che si annunciava lungo e s'imponeva necessario. Non era uno stato d'animo insolito per Gualtiero Guarnera quello che stava vivendo. Lo conosceva bene, ricordava come ai crocevia della sua esistenza, e pochi non erano stati, quell'interrogativo saltava fuori all'improvviso costringendolo a pensare e ripensare la ragioni del suo agire. C'era anche un motivo che allungava le radici nella sua infanzia. Era suo nonno, era suo padre, erano i grandi della sua famiglia che ogni qual volta, lui piccolo Gualtiero azzardava una domanda, una richiesta di voler capire meglio e di più, si ritrovava una mano forte e persuasiva sulla spalla e una sola risposta, sempre identica: "Non ti porre tanti perché, fai quel che devi!". Le domande però non morivano in lui schiacciate da quelle mani, frustrate da quegli occhi che lo fissavano ammiccando accomodamenti di corta vita. Rimanevano vive nel silenzio operoso del suo volere pensare e lievitavano, maturavano, producevano frutti che lo nutrivano: dava corpo ad idee. Per questa via, forzatamente solitaria, aveva sviluppato la capacità di seminare in sé i dubbi, farli germogliare come ipotesi e lasciarli crescere come idee. L'interrogazione che si era adesso posto, quel perché generale e generico, iniziò presto a frantumarsi, scomponendosi nei grani di un rosario introspettivo, annodato in sequenza chiusa e circolare, sì che a percorrerli tutti si tornava al principio fondamentale, ma ben separati dal filo del ragionamento e dai nodi del pensiero. Così la domanda unica e principale iniziò a cercare la forma di un possibile ragionamento e si fece: "Perché faccio questo mestiere?", per trasformarsi presto in "Perché mi sto recando proprio in questa città?", e tramutarsi in "Perché ho tanto brigato per fare scuola di ballo a questa gente?" e divenne "Perché così lontano dalla mia terra?" per ampliarsi in "Perché sono solo?" e soffermarsi in "Perché la amo?" e perché, perché, perché e ancora di nuovo fin quando il circolo del ragionare si richiuse sul primo imponente interrogativo. Pensò al suo mestiere, maestro di ballo, e si sforzò di ricordare come era avvenuto che quell'arte fosse divenuta la sua vita. Sapeva bene che la grande famiglia dell'arte si divideva nelle due grandi categorie del "figli d'arte" e dei "civili", dilettanti che forzavano le resistenze corporative, superavano l'ostilità dei blasonati di antico sangue e divenivano per passione o per diletto artisti di teatro. Lo raccontava spesso il nonno che ai suoi tempi non girava così il mondo. Ben pochi sceglievano di lasciare la vita civile per divenire ballerino, perché se il carro dei teatranti era mal visto, quello dei danzatori era maledetto. Poi vennero le Scuole a rivoltare le carte in tavola. Fondarono la Scuola di Ballo a Milano, alla Scala, a Napoli, al San Carlo, poi qui, poi là e pian pianino le compagnie ed i teatri si riempirono di ballerini di scuola che frantumarono l'antica tradizione dell'arte. Lui no, non era andato ad alcuna scuola. Il destino lo aveva fatto nascere in una famiglia di artisti, ballerino il padre, ballerino il padre del padre, ballerino il padre del padre del padre e così via, fino alla leggenda nutrita in famiglia, che il fondatore della stirpe avesse danzato per Re Luigi, il quattordicesimo. Perché aveva scelto quel mestiere? Domanda semplice nella sua linearità, ma per lui fonte di dolorose crisi, angosciati ripensamenti, rifiuti ed accettazioni, talvolta passionali, altre volte meditati. La risposta, semplice come la domanda, giungeva sempre puntuale ed onesta: non sapeva fare altro. All'età di cinque anni la madre gli aveva cucito un vestitino di Arlecchino, il padre lo aveva istruito con pazienza e fiducia, facendogli ripetere cento volte una sequenza semplice, ma accattivante, fatta di passi e sgambetti che avrebbero certamente condotto il pubblico al sorriso e all'applauso. Trenta anni prima, la medesima sequenza il padre l'aveva appresa da suo padre che, commosso, gli aveva confessato di averla appresa dal padre. Vestito da Arlecchino, pantofole di pelle morbida ai piedi, Gualtiero Guarnera aveva fatto il suo debutto in una gioiosa pantomima di Natale in un freddo e quasi vuoto teatrino di provincia. Non ricordava che città fosse, né il nome del teatro, ma fissa in mente gli era rimasta l'immagine dello sguardo di uno spettatore, il cui sorriso ironico e sfottente annichiliva tutto l'orgoglio generato in lui dallo sforzo fatto ad imparare ad arte passi, gesti e mimica, per essere, come voleva il padre, un vero Arlecchino. Gli era rimasto conficcato dentro, quel sorriso cattivo, impudente ed impietoso, ma negli anni si era trasformato da chiodo doloroso in bastone solido della propria coscienza. Aveva maturato l'idea che non si danzava per il pubblico, ma per qualcosa di diverso. Il pubblico era una bestia nera, da servire con precisione e puntualità, perché pagava il biglietto, ma niente di più. Il piacere e la gioia del lavoro, del creare e rappresentare la danza non potevano trovare la loro ragione d'essere in quel contratto commerciale che era la vendita e l'acquisto di un biglietto. Aveva allora deciso di danzare non per il pubblico, ma per una persona in particolare. Ogni sera una persona diversa, ora la madre, ora il padre; una sera il nonno, l'altra la sorella. Poi c'erano tutte le ragazze del corpo di ballo, cui dedicare una sera ciascuno. Quando, dopo le prime settimane di repliche, si sentiva maturo e pronto dedicava la sua danza alle stupende prime ballerine. Una sera, solo e soltanto una, ed era tra le ultime della stagione, danzava per Lei, la prima ballerina di rango francese, la stella della compagnia.