N. 15
Infine lo vide, quando ormai la distanza era così ravvicinata da potere con agio distinguere ogni dettaglio nella figura. Era un uomo maturo, di forte corporatura. Vestiva con eleganza, un pantalone color nocciola spuntava da una mantella di panno blu; il cilindro, il bastone, gli stivaletti con sovrascarpe di panno, tutto pulito, tutto perfetto, tutto giusto. Risaltava, nella semplice, spontanea naturalità della campagna, la precisione artefatta di quel signore a passeggio per i campi. A Guarnera diede l'impressione di un attore nei panni di un personaggio di commedia francese, che avesse sbagliato strada e dal camerino, invece di prendere la via del palcoscenico avesse imboccato il sentiero dei campi. Lo studiò, velocemente, da capo a piedi e si fece l'idea che quell'uomo o era finto o era matto. Non lo persuadeva quell'assoluto nitore degli stivaletti, l'assenza di fango sui pantaloni e di polvere sulla mantella. Quell'uomo pareva essere uscito in quel medesimo istante da casa, ma intorno non se ne vedeva alcuna: campi sulla sinistra, un boschetto di faggi sulla destra. Guarnera decise di non curarsene, che altro il suo pensiero voleva scrutare, e allungò il passo per andare oltre, superando la persona e l'imbarazzo dell'incontro. L'uomo, però, non appena fu raggiunto si voltò e regalando al viaggiatore solitario un gran sorriso di benvenuto, porse la mano inguantata, sollevò appena dal capo il cappello, eseguendo un perfetto inchino: "Permetta che mi presenti, Giovanni Casati". Non trovò, Guarnera, un motivo valido per presentarsi con sincerità a quello sconosciuto. Piuttosto rimase una frazione non piccola di tempo in silenzio, fissando dritto negli occhi, verde oliva nel castano scuro, cercando nell'intensità dello sguardo la risposta all'enigma che quell'uomo cominciava ad essere. Serio, senza concedere alcuna sponda al sorriso accattivante di benvenuto, Guarnera mentì: "Piacere di conoscerla, il mio nome è Simone Levi" e strinse finalmente la mano rimasta sospesa a mezz'aria. Casati non gli diede il tempo di riflettere o agire e con un'amichevole manata sulle spalle se lo pose al fianco, continuando il cammino e dando fiato ad un discorso così ben ritmato da sembrare recitato: " Caro Levi, lei ha il piacere di camminare sulle mie terre. Sì, mio caro, io sono il proprietario, il possidente, come mi chiamano quei diavoli delle Imposte, di tutto quello che vede qui intorno". Senza dar tempo all'interlocutore di pensare o dire, continuò: "Tutte le mattine che il Cielo ci manda in Terra, io voglio guardarmele le mie terre, camminarci sopra, carezzarle con gli occhi ed i piedi. Lei lo sa, come si dice, l'occhio del padrone ingrassa il cavallo. Ma mi scusi, la intontisco con le mie stupide chiacchiere sentimentali. Mi dica, Levi, lei è di certo un commerciante, che generi commercia? A caccia di qualche affaruccio nelle nostre campagne o è solo di passaggio, diretto in città?" Era un torrente inarrestabile di parole, mimica e gesti. Guarnera, che conosceva bene il lavoro dell'arte, pensò che se non si trattava di un attore, quell'uomo doveva divenirlo, tanto esperto si mostrava nell'incrociare le parole con gli sguardi e questi con i movimenti delle mani e le posture del corpo. La voce ammaliava mentre le mani riuscivano a cercare lo sguardo dell'interlocutore, lo catturavano, lo tenevano, quasi ipnotizzando, mentre il corpo tutto avvolgeva e proteggeva il ritmo suadente della voce e delle mani. "Lei sarà stanco, caro Levi, " continuò Casati il monologo melodico, "venga a riposare nella mia modesta casetta. Avrò l'onore di presentarle la mia signora e condividere con lei il pranzo. Potremo dopo, se ne avrà voglia, con serenità, parlare d'affari. Ecco lì il sentiero che conduce alla mia abitazione, attraversiamo il boschetto e voilà, ci sediamo in salotto a gustarci un nocino che non ha pari". A questo punto, per la prima volta, Guarnera sorrise. Il sentiero indicato da Casati era un viottolo fangoso, dal quale poteva transitare appena un calessino. Non poteva essere la strada d'accesso alla villa di un possidente, non vi passava una carrozza, non passavano i carri da trasporto. Casati non poteva aver percorso quel sentiero e rimanere lindo come un manichino di sartoria. Guarnera sorrise perché prepotente esplose in lui l'eccitazione per il gioco cui stava dando inizio, il gioco delle parti: il gatto e il topo. Neanche a dirlo, preferiva la parte del felino. Di più, godeva del pensiero che il suo topolino s'immaginava di essere un furbo gattone predatore, senza accorgersi che nella trappola preparata ci si stava ficcando da solo. Fu un attimo, Guarnera spalancò gli occhi e la bocca, mimando sorpresa, e indicando un punto lontano disse: "Guardi lì, una pattuglia di carabinieri". Casati si voltò di scatto, azzittendosi, lo sguardo fisso nella direzione indicata. Guarnera estrasse la pistola dalla tasca interna della giacca e appoggiò la canna alla nuca. Il freddo del ferro sulla carne nuda del collo gli gelò il sangue nelle vene; la voce, bassa e roca di Guarnera glielo fece ribollire: "Brutta bestia di una Biscia". Il presunto possidente, il modellino da sartoria tentò di voltarsi d'istinto, ma lo scatto del cane della pistola, che anticipava la pressione del grilletto, la spinta imperiosa della canna lo bloccarono e si percepì solo un sibilo: "Sbirro!" Guarnera aveva capito, dopo i primi momenti di dubbio e d'incertezza che quell'uomo doveva essere un malfattore, un bandito di strada, un grassatore. Uno di quelli che vivono rapinando i passanti o assaltando nottetempo le case isolate. Avrebbe volentieri fatto a meno, Guarnera, di un tale accadimento, ma aveva imparato dalla vita che il destino prova gusto a scegliere le storie più incredibili e strane e scomode e tortuose entro cui farti vivere. La capacità di destreggiarsi diveniva l'abilità di saper vivere e lui l'aveva sviluppata e raffinata con arte e scienza. Quell'uomo era il famoso Biscia, tanto temuto e tanto citato nei racconti all'osteria. Era proprio lui, ma che farsene adesso che se lo trovava davanti, alla sua mercè, raggirato come un qualsiasi ganzo da fiera. Pensò che poteva consegnarlo ai carabinieri e così facendo divenire famoso, quasi un eroe, probabilmente ricevere ricompense e lodi pubbliche. Sarebbe stata un'utilissima pubblicità per il suo corso di ballo; signore e signorine sarebbero accorse per danzare il valzer con un uomo così coraggioso e forte. Cassò subito questo pensiero futile e stupido. Pensò che aveva tra le mani la vita di un uomo e che quella vita doveva pur valere qualcosa, avere un significato, un senso che al mondo intero non appariva, che non si palesava se non attraverso nefandezze e bruttezze, ma che per l'uomo che l'aveva addosso dalla nascita qualcosa doveva pesare. Scelse di continuare il gioco. Approfittando dell'assoluto, forzato controllo che possedeva in quel momento su quell'uomo, decise di conoscerlo a fondo, di costringerlo a rivelarsi nudo nell'intima coscienza, di uomo e di bestia.