Appendice

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Appendice letteraria - N. 16


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Appendice "letteraria"

N. 16

"Tu sei quello che chiamano Biscia, vero?". "Tu sei uno sbirro che vuole fare carriera, vero?" "Adesso metti le tue manacce su quel cappello da commedia e cammina dritto davanti a me, verso la città", e nel dare l'ordine la voce di Guarnera si arrochì e si fece bassa, volendo egli assumere un contegno da uomo di strada, temprato dalla durezza della vita, forte della certezza del proprio coraggio. L'uomo ubbidì e s'incamminarono in silenzio, uno avanti l'altro dietro col braccio teso e la pistola puntata. Non durò molto, però, quel silenzio, perché Guarnera in realtà voleva sapere, conoscere, capire e diede inizio ad una conversazione che in principio sapeva di interrogatorio, ma che presto prese una piega diversa. Iniziò Guarnera: "Perché ti chiamano Biscia?" - "Perché adesso ti sto davanti e tra un attimo ti starò dietro." - "Ti credi così furbo?" "Nessuno sa mai da dove arrivo e dove vado." - "Qual è il tuo vero nome?" "Perché dovrei dirtelo? Non ti può interessare e non sei degno di saperlo e pronunciarlo." Guarnera capì che avrebbe dovuto provocarlo in altra maniera per farlo parlare. "Non è che ti hanno chiamato Biscia perché strisci nel fango come i serpenti e i vermi?" "Mi hanno chiamato Biscia perché la faccio in barba a tutti, signori e preti e sbirri nel mezzo." "O forse perché sei un vigliacco che assale, rapina e uccide i deboli, i vecchi, le donne?" L'uomo non rispose. "Toccato!" pensò Guarnera e partì all'attacco rafforzando il colpo. "Ci voleva furbizia e coraggio a tagliare la gola alla Signora Zocca e al marito? Dimmi, prima li hai sgozzati e poi li hai legati nella porcilaia o col tuo onore professionale li hai prima trascinati tra i maiali e poi li hai sgozzati?" Nel pronunciare queste parole, Guarnera non si riconosceva più, era come se fosse entrato fino in fondo nel personaggio del gendarme cinico, duro nel cuore come nelle parole. "Maiali! Sì, quei due erano dei maiali ed era la fine giusta per loro, scannati nel porcile", esplose Biscia con rabbia, sputando in terra il disgusto che covava. "E tu chi sei, Dio, per decidere il destino degli uomini?" "Quel porco si portava le ragazze nella stalla e ci faceva i suoi comodi. La moglie sapeva e stava zitta per convenienza. Se avevi la sventura di nascere contadina nei paraggi della sua terra, appena diventavi formosa e signorina quel maiale ti metteva le mani addosso." "Vuoi dirmi che sei un difensore dei deboli, un uomo che porta giustizia?" "Io sono entrato in quella casa perché volevo i soldi, tutti i denari che quei due accatastavano succhiandoli ai contadini che lavoravano le loro terre, svenandoli fino all'ultima goccia di sangue." "Cos'è, mi vuoi fare commuovere?" "Quando li ho sorpresi nel loro bel salotto, parato di velluti e merletti, alabastri e argenti avevo solo voglia di incassare in fretta e scappare via. Ma quella lì col suo faccione pieno e grasso, la vociaccia di gallina, col sorriso della volpe, "cercali, cercali, se li trovi..." . L'ho guardata bene in faccia e mi è apparso davanti il volto di Serenella, l'ultima figlia dei Badolo, che lavorano la terra di là dal fiume per i Zocca. Aveva appena quattordici anni e la incontrai una sera, già buio, sola, che piangeva, piangeva e camminava a stento trascinandosi per il sentiero che costeggia il fiume per arrivare al ponte. La fermai, "Serenella, che hai?" le chiesi e avvicinai il mio volto al suo, scostandole i capelli per guardarla negli occhi. Ma gli occhi non si vedevano, sembravano due piaghe rosse e gonfie e tutto il volto a chiazze nere e viola e grigie, che si capiva che un pazzo ci si era sfogato sopra a schiaffi e pugni. "Serenella, Zocca è stato?" le chiesi e la sua risposta fu un'esplosione esacerbata di pianto. Dondolando la testa continuò per la sua strada. E io me la ricordò ancora quella testa che dondola sulle spallucce squassate dal pianto, che si allontana e scompare. Quella testa che dondolava mi sembrava che volesse dire no, no allo schifo di questo mondo, al destino infame che ci pugnala a tradimento. Sbirro, Serenella la trovarono in un canale due giorni dopo, annegata, e i compari di Zocca convinsero i tuoi amici che la poveretta era stata vittima di un brigante, forse proprio Biscia. Io quando sono entrato in quella casa non pensavo a Serenella, volevo i denari, ma quando glieli ho chiesti, quei due si sono messi a ridere, in faccia a me, "cercali se li vuoi, vediamo se li trovi...". Non ho capito più niente, la rabbia mi ha accecato, perché non è possibile che al mondo esistano ladri patentati che vivono nell'oro e ladri di mestiere come me che devono sopravvivere nascosti tra gli alberi e le capanne. Quello è stato un regolamento di conti tra ladri e dato che lui era un maiale e lei una scrofa li ho trascinati legati e ululanti in mezzo ai loro simili e li ho scannati come si meritavano. Poi con calma i denari li ho cercati e li ho trovati, perché io sono furbo davvero e li cerco sempre dove li avrei nascosti se li avessi avuti io. E ci credi o no un sacchetto di quei denari l'ho fatto trovare al padre di Serenella, che bisogno ne ha, e tanto." Guarnera era attonito. Mentre quell'uomo davanti a lui continuava, ormai senza più bisogno di essere spronato al racconto, a narrare le sue gesta di furti, violenze, soprusi e furbizie, il suo pensiero volò via da quel luogo e da quell'uomo, ricercando nuovamente i motivi del suo agire, quei perché che lo avevano avvolto all'inizio del suo cammino. Quelle storie lui le aveva sentite raccontare dai viandanti, nelle sere trascorse in osteria. Dei Zocca aveva saputo dalle pagine del giornale, ma il racconto ascoltato dalla viva voce di quell'uomo, colorato di tutte le sfumature che il sentimento umano può produrre nel rivivere le passioni toccanti della propria vita, quel racconto lo aveva annichilito. Non riusciva più a sostenere la parte del segugio, del cacciatore. Si sentiva quello che era, un maestro di ballo con una pistola puntata verso un uomo che apparteneva ad un mondo che non era il suo, un mondo che aveva cercato di penetrare, ma che già al suo primo passo gli appariva terrificante e inaccettabile. Si vide per quel che era e come accade quando capita di guardarsi col terzo occhio, quello straniante che ci osserva da di fuori del nostro corpo e ci spia in azione, si vide e gli nacque nel fondo dei polmoni una risata che gorgogliando risalì veloce in gola ed esplose nel silenzio della campagna e nelle orecchie di Biscia come un commento beffardo all'umanità profonda denudata da quei racconti. Guarnera si era rivisto, riprodotto come in un ritratto preciso in ogni dettaglio, nel balletto "Il Bandito di Calabria", nel quale interpretava la parte di un gendarme che catturava un pericoloso bandito. Allora, una decina di anni addietro, tutto avveniva su un palcoscenico, adesso su una terrosa strada di campagna, ma l'immagine era identica: lui teneva puntata la pistola alla schiena del bandito che, mani in alto, lo precedeva nella via verso la prigione. Rideva, Guarnera, rideva e non riusciva a trattenersi perché il suo terzo occhio era implacabile; l'ironia del suo giudizio non lasciava spazio al contraddittorio, era perentoria. Abbassò il braccio, mise via la pistola. Biscia si voltò, lo guardò serio e disse: "Tu non sei uno sbirro!" - "No, sono un ballerino". Col sorriso sulle labbra, Guarnera vide una mano chiusa a pugno volare verso la sua faccia, sentì una scossa fredda nel cervello, un dolore acuto sul mento e la luce si spense insieme al suo pensiero.


Ultimo aggiornamento: novembre 2003