N. 17
Accadeva che, mentre Guarnera giaceva intontito disteso faccia al cielo sul ciglio di un fosso, Zoboli percorreva a passi svelti la strada che lo separava dalla moglie fantasticando il progetto del suo Ballo, Ghedini seduto ad un tavolino del Circolo studiava su una scacchiera mosse e contromosse del futuro scontro col nuovo maestro, Alcamo si astraeva inseguendo riccioli di parole necessarie al suo componimento serale, Tinsa con piglio e passo deciso si recava al Caffè del Teatro per incontrare i suoi fidi informatori e scoprire qualcosa sul maestro in arrivo; mentre il sasso gettato nello stagno iniziava a produrre quei movimenti costanti e continui che ne avrebbero alterato la piatta superficie in stato di quiete; un uomo e una donna che più di ogni altro sapevano, sedevano fianco a fianco, in silenzio. Gli occhi in apparenza fissi su un satiro e le sue belle contadinelle, dipinti a tinte pastello sulla parete di fondo del gran salone. Il satiro portava alle labbra le canne del suo flauto, le ragazze tonde e allegre sollevavano in aria braccia e gambe intrecciando una carola e i marchesi Bellentani sedevano su due grandi e antiche sedie dalle alte spalliere imbottite di velluto porpora, le braccia adagiate sui braccioli, le gambe signorilmente incrociate di traverso, nel grande salone delle feste, cuore del loro palazzo in Canal Vecchio. Sedevano in silenzio, e se il loro sguardo sembrava assorto nel voluttuoso gioco pastorale che da secoli ornava le pareti del salone, in realtà quegli occhi vedevano dell'altro. Sagomavano nell'aria ferma, densa di muffe umide, i contorni e le sembianze dei volti e dei corpi che quel salone avevano animato. Nutrivano le ombre del tempo trascorso col desiderio, potente, di riportarle in vita, per condividere con esse, anche solo per un attimo fuggente, le gioie dei giorni sereni, festosi, per sempre andati.
Ruppe il silenzio il marchese:" Credi che abbiamo fatto bene ad affittarlo a questo maestro di passaggio?"
Le parole pronunciate al vuoto lì rimasero, nessuno le raccolse. Il silenzio riassorbì il suono e gli sguardi.
"Doveva essere il Sedici o il Diciassette, ricordi?" adesso era la voce della marchesa, fioca, intima, sommessa, quasi a non volere disturbare ombre sensibili a lungo attese. "Era la prima volta che il Duca Francesco e il fratello Massimiliano ci onoravano della loro presenza."
Il marchese strinse i suoi già piccoli occhi azzurri e parve vedere anch'egli le medesime sagome evocate dalla moglie: "Certo, era il carnevale del Milleottocentodiciassette. Mio padre volle a tutti i costi celebrare il ritorno dell'aquila ducale. Me lo ricordò il Duca allora, giovane, bello, serio, elegantissimo, guardava dritto negli occhi, lasciandoti in soggezione. Invitò mia madre per la quadriglia d'onore in apertura del ballo; erano lì, mano nella mano, al centro della salone, ricordi?".
Sorrise la donna: "Sì, e tua madre era così agitata che tentennava ad ogni figura; il volto, chassé dopo chassé, le diveniva sempre più colorito, tanto che alla Finale pareva di ritorno da una gita al fiume."
Il sorriso rimase disteso sui volti dei due anziani, riassorbiti nuovamente nel silenzio antico del salone. Quindi la marchesa poggiò la sua mano piccola, bianca, fredda, su quella del marito, ruotò il busto per guardarlo bene nel volto, come a mirare le parole che stava per proferire: " No, abbiamo fatto male ad affittare il nostro salone a questo maestro di passaggio, ma non avevamo altra possibilità, ne abbiamo discusso a lungo e non ha senso tornare a ragionarci". Si fermò:, lasciò andare la mano del marito, voltò lo sguardo verso i pesanti tendaggi verdi che coprivano le finestre e aggiunse, la voce intrisa di amarezza: "Non l'abbiamo scritta noi la storia".
Il marchese inseguì con la sua mano la mano che l'aveva abbandonato, la strinse forte portandosela al cuore: "No Cristina, l'abbiamo scritta noi la nostra storia. L'hanno scritta i nostri genitori e noi appresso a loro, e controfirmata ad ogni pagina, così come l'avevano preparata. Chi ha voluto seguire il Duca Ercole nel marzo del Millesettecentonovantasei ed è poi rimasto a Venezia a fare la bella vita fino al Quindici. E dove erano i tuoi, Cristina? Erano a Vienna, alla corte serena e sicura dei Grandi Protettori. Ricordi come siamo poi tornati felici e vincitori col Francesco, che feste, che solennità, che gioia, che rivincite. Peccato che per vivere a Venezia i miei avevano dovuto vendere quasi tutti i possedimenti; San Cesario, San Donino, Molinelle, Camposanto e i boschi della Mirandola erano andati ad ingrassare i signorotti con le borse piene, il loro bel tricolore e la erre moscia. Cristina ti ricordi dove ci siamo nascosti quelle notti di febbraio del Trentuno: che vergogna!" La voce del marchese andava crescendo frase in frase, ad ogni espressione diveniva sempre più amara e la mano, ancora sul cuore stringeva a tratti con forza la mano della moglie, che reagiva con una sofferta smorfia di dolore, ma non reagiva, non tentava di sottrarsi a quello sfogo del quale conosceva la profondità dell'amarezza e la trama del canovaccio, ma dentro il quale il marito evocava di volta in volta ricordi e scene diverse.
"Che silenzio, il nostro" continuò l'uomo, "quando il Duca si portò in giro il Menotti con il cappio al collo". Qui tacque, gli occhi spiritati, dilatati nell'angoscia dei ricordi. Riprese pian piano, sottovoce.
"E quando nel Quarantanove abbiamo chiuso la porta in faccia alla contessa Rangone. Per dodici anni, noi come gli altri l'abbiamo cancellata dalla società. Non una parola, due righe di lettera, né sguardi né inviti, né Chiesa né Teatro. Per dodici anni, e perché? Perché aveva cucito una bandiera tricolore e non si era pentita, né umiliata, forte come una quercia, sicura nel suo ideale. Cristina, noi l'abbiamo scritta la nostra storia, con i nostri errori, la nostra miopia, la cocciutaggine e l'orgoglio e non abbiamo capito che l'Italia la stavano facendo sul serio quelli là!" Il tono della voce aveva ripreso lentamente ad alzarsi e le ultime parole, di disprezzo, "quelli là", risuonarono minacciose per le pareti del salone. Il marchese chiuse gli occhi, sospirò, riportò la mano della moglie sul bracciolo della sedia e concluse: "Per questo adesso, vecchi, soli, senza figli, dobbiamo affittare le stanze al piano di sopra agli impiegati e alle sartine, e il salone a questo maestro di ballo, come borghesucci qualsiasi. Cristina, per vivere, dobbiamo."