N. 18
Il colonnello Odoardo Tinsa fece il suo ingresso al Caffè del Teatro recitando il consueto rituale dei saluti. Aperta la porta, entrò, si fermò sulla soglia richiudendo dietro di sé col dorso della mano e si fermò diritto, piedi uniti, gambe tese, schiena rigida, testa alta, perfetto aplomb, e iniziò a fare scorrere lo sguardo da sinistra verso destra declinando l'intera gamma di saluti che il suo personale galateo aveva classificato. Era un affare di sguardi e piccoli gesti, movimenti accennati appena dalla testa, dalle sopracciglia, dagli occhi, dalle labbra e dalle mani. Quando il suo sguardo incontrava quello del caffettiere le palpebre gli si abbassavano a metà a significare: "Ben trovato, gaglioffo"; incontrando un caro amico strizzava l'occhio sinistro a dire: "Ciao caro"; se il suo sguardo s'intrecciava con un conoscente ricco e potente piegava leggermente il capo portando la mano alla tesa del cappello a significare "è un onore poterla salutare"; se si trattava di un militare superiore di grado stirava tutte le membra in una perfetta posizione d'attenti come a dire: "Agli ordini, come ai vecchi tempi". La sua raffinata e complessa arte del saluto si esprimeva al massimo grado quando il suo sguardo incontrava una persona non degna della sua attenzione. Tinsa era grandioso nel trasformare esseri viventi in oggetti inanimati o meglio, in pura evanescenza. Se, entrando al Caffè, nella panoramica che da sinistra a destra percorreva l'intera sala, Tinsa incappava nello sguardo di un cameriere, potete stare certi che costui provava l'angosciante sensazione di non esistere. Lo sguardo del colonnello lo passava da parte a parte negando anche la più palese evidenza di compattezza molecolare. Un gradino più alto era riservato a coloro che, pur essendo di "civile" condizione, non erano riconosciuti meritevoli di saluto. Per mille motivi: perché uno ventiquattro anni prima non gli aveva dato il passo all'ingresso del teatro; perché dell'altro tutta la città sghignazzava che la moglie gli ornava la fronte con un operaio della Manifattura Tabacchi; perché un altro ancora da sei mesi non pagava la tessera del circolo. Per tutti costoro, incrociando lo sguardo, Tinsa tendeva appena le labbra dalla parte destra ad indicare: "Ci tengo a farvelo sapere quanto mi disgustate". Infine c'erano i nemici dichiarati: i comunisti. In città nessuno sapeva chi fossero, da dove venissero, cosa volessero. Si era letto sui giornali di certe idee, movimenti politici, proteste di massa, ma sempre lontano dalla propria piazza dai canali dai vicoli dal Palazzo e dalle chiese della propria città; a Parigi, a Londra, a Berlino, altrove. Solo Tinsa sapeva. Lui li aveva riconosciuti subito. Aveva capito, recependo frasi, piccoli dettagli, cenni, movimenti inconsueti, sui quali aveva edificato il suo castello di conoscenza. Così quando il suo sguardo s'incontrava al Caffè con quello di un sicuro comunista, gli occhi di Tinsa lo inchiodavano alle sue responsabilità, fissandolo implacabili, le mascelle serrate, minacciando: "Ti conosco mascherina, ti tengo d'occhio, non la passerai liscia". Il fatto che l'oggetto di una stilettata fosse, ad esempio, il professor Amleto Saltarini, filologo di fama internazionale, accademico delle più illustri società letterarie d'Italia, il quale rispondeva sempre da dietro le spesse lenti tonde con un sincero, aperto, cortese saluto di ricambio, era per Tinsa un chiaro segnale di avere proprio ragione e che dietro quell'apparenza paciosa, cicciona e miope si nascondeva proprio il capo di quella setta d'assassini. Compiuto il rituale dei saluti, Tinsa si diresse senza esitazione verso l'uomo di cui aveva bisogno e la persona che era all'origine di tanta premura comprese benissimo di essere al centro dell'attenzione del colonnello perché nel salutarlo quest'ultimo aveva sollevato le sopracciglia e l'intera testa, espressione mimica che nel vocabolario dei saluti di Tinsa significava interesse superiore alla norma. Quest'uomo era Gaspare Camuri, di mestiere non esattamente definito, ma abilissimo nel dare precise e complete informazioni su ogni persona che avesse avuto il caso, più o meno fortunato, di divenire un personaggio pubblico. Attore o politico, cantante o uomo d'affari, commerciante o ballerino, poliziotto o brigante, bastava che il nome e le proprie gesta avessero avuto eco su gazzetta, giornale o rivista e Camuri n'aveva preso atto. Leggeva tutto, e ricordava e schedava. Da quando aveva capito che l'informazione era un bene prezioso il cui valore poteva competere con quello dei più ragguardevoli metalli, oltre a leggere Camuri ascoltava, e ricordava e schedava. Personaggi pubblici per questa via erano diventati i suoi concittadini, la conoscenza di vita morte e miracoli dei quali era per Camuri diventata un punto d'onore. Col passare degli anni la sua competenza era a tal punto maturata che chiunque in città avesse bisogno d'avere informazioni cercava Camuri. Se si aveva necessità d'avere notizie certe sullo stato delle finanze di un commerciante, Camuri, intascando un gradito "dono" pecuniario, rilasciava informazioni così precise e dettagliate come fosse lui medesimo il commerciante in questione. La Direzione del Teatro si rivolgeva a lui prima di scritturare un artista o firmare un contratto con un impresario e lui di costoro elencava fiaschi e successi, contratti sottoscritti nella loro carriera, fallimenti, magagne e valore di mercato. Quando un ispettore di polizia voleva una notizia certa su un tipo sospetto, consultava Camuri. Se era un marito a volere l'informazione e i sospetti erano sulla moglie, consultava Camuri. Le sue doti principali erano la precisione e la riservatezza. La capacità di incamerare notizie era per lui solo ormai un fattore tecnico, un processo fisiologico mnemonico coadiuvato da un mastodontico archivio cartaceo, ma precisione e riservatezza appartenevano ad una sfera diversa, erano i fondamenti della sua etica. Mai un errore, ma neanche una parola di più di quanto richiestogli. Non una crepa nella sequenza di fatti rivelati, ma neanche un giudizio, un commento, un'inclinazione di sentimento. Solo fatti e nomi, sempre precisi, sempre documentati. Era a quest'uomo che aveva pensato Tinsa nel momento preciso in cui si era chiesto chi diavolo fosse questo maestro di ballo.